24 dicembre 2019: l’alba della Terra

Mafalda, guardando la Luna dalla propria cameretta, dice: «Poverina, pensare che sei solo uno zerbino sulla porta dell’Universo». 

Già, io sono del 1978, quindi della generazione post allunaggio. Sono nata quando l’uomo aveva già saltellato sul disco argentato, quindi sono cresciuta chiedendomi: «Quando ci torneremo? Quali altri pianeti visiteremo?». Perché la Luna era solo l’inizio, l’entrata di un Universo tutto da scoprire. Per me, come per Mafalda, non è mai stata una questione di “se“ l’uomo avrebbe mai raggiunto la Luna. Infatti, per me quella Luna già conquistata è sempre stata molto più vicina di quanto, probabilmente, non lo fosse per i miei nonni. Forse anche per questo, quando ho visto la famosa foto L’alba della Terra, scattata dagli astronauti dell’Apollo 8 in orbita attorno alla Luna – il 24 dicembre alle 17:00 ora italiana -, mi sono sentita un microbo veramente trascurabile. 

Bill Anders, la cui pellicola riuscì a catturare quella scena stupefacente, disse: «Siamo andati fino alla Luna per scoprire la Terra».

Bel cambio  di prospettiva.  

Vedere il sorgere della Terra: magnifica, sicura, lucente.  Un orizzonte dal quale è difficile non lasciarsi sedurre. Gli astronauti si devono essere sentiti come quel bambino che si guarda per la prima volta allo specchio e riconosce che l’immagine che vede è se stesso, non un altro bambino. Quindi capisce anche che è così che lo vedono tutti gli altri.

I cosmonauti dell’Apollo 8, con le spalle alla Luna, all’orizzonte hanno visto una biglia blu che sorgeva tra tanti puntini monocromi. Certo, nel nostro sistema solare le biglie colorate sono molte, rosse, grigie, persino con gli anelli, ma nessuna di quell’azzurro intenso del nostro globo. Il motivo è quel 70% di acqua che ricopre la superficie terrestre.

Solo il nostro pianeta ė così blu.

E persino loro – degli astronauti – avevano sempre visto il sorgere del Sole o della Luna, ma mai quello della Terra. Mozzafiato. 

Ricordo che, da  piccola, un bar sotto casa aveva una macchinetta piena di biglie colorate, che odorava di tramezzino tonno e pomodoro, in cui si inseriva una monetina e scendeva una  biglia a caso. Io spendevo buona parte dei miei risparmi per ottenere quell’unica biglia che non scendeva mai, quella blu. Era una vera rarità. Avrei fatto qualsiasi cosa per pescarla, come molti dei miei coetanei. Ora so di averla già quella rarità. Non ho bisogno di tutti i miei risparmi per ottenerla o fare chissà che. Se da bambina ero disposta a compiere tanti sacrifici per avere quella biglia tanto rara, perché adesso non dovrei farne di molto più piccoli per mantenere ciò che già possiedo? 

Poi quella bambina, crescendo, ha potuto viaggiare in lungo e in largo per quella biglia blu, annusando, osservando e ascoltando un Universo che, da piccola, non aveva nemmeno immaginato. 

Purtroppo però, sempre meno lentamente e sempre più inesorabilmente, la nostra Terra é ogni giorno più sbiadita e meno blu. Quando penso ai nipoti dei miei nipoti, vorrei solo che avessero la stessa possibilità di scegliere che ho avuto io da bimba: se spendere i miei risparmi per provare a pescare la biglia blu. Vorrei che, unica, non semplicemente rara,  quella esistesse ancora. Perché andare a visitare nuovi pianeti e nuovi mondi in galassie  lontane non deve necessariamente significare non avere più una scelta, doverci andare per forza, perché non si ha alternativa o perché non si ha più un luogo dove vivere, invece che per il puro piacere di visitare ciò che ancora non si conosce. Anzi, può significare la moltiplicazione delle proprie scelte, il potere vivere sulla Terra, ma anche su Marte o su altri pianeti. 

Perché quando finalmente riuscivo a pescare la biglia blu, mica buttavo tutte le altre. 

Avere quella blu non mi faceva apprezzare meno le altre colorate. Al contrario, forse mi aiutava a coglierne quei dettagli che prima mi erano sfuggiti. 

Certo è che, per una terrestre come me, nata su una biglia ricca di profondissima acqua blu, è un po’ difficile concepire solo melma e acque distruttive. 

Io amo essere nutrita da oceani immensi e sereni. È in quelle acque che ho imparato a nuotare, a non temere ciò che è diverso da ciò che già conoscevo, perché erano molti i pesci che mi sfioravano e c’era posto per tutti noi.

Io amo trovarmi fra tanti esseri diversi, ma nutriti dalla stessa acqua che nutre me. Mi piacciono anche le montagne, perché mi sembrano un po’ più vicine al cielo. A quella sottile atmosfera che, ahimè, stiamo perforando. Mi piacciono le foreste che respirano intorno a me anche quando, a me, il fiato manca.

Odio sentirmi impotente e vorrei riuscire a fare ancora qualcosa di buono per la nostra piccola biglia blu. 

In fin dei conti, a me è sempre piaciuta la parola crisi, che in greco significa decisione. Quindi la così chiamata “crisi climatica” in realtà vuol dire che possiamo ancora prendere una decisione, che possiamo ancora scegliere, adattarci ai cambiamenti. Non vuol dire solo che possiamo scappare lasciandoci alle spalle una palude di stracci.

La verità è che non sono pronta a distruggere tutto ciò che amo, ad abbandonare per sempre l’unica casa che conosco. Non il mio paese, ma il mio pianeta.

dSe le generazioni future nasceranno su altri corpi celesti, qualcuno dovrà pure raccontare loro che esiste una biglia blu nell’Universo e che noi, tutti, ma proprio tutti noi, proveniamo esattamente da lì. E che magari qualcuno ci vive ancora. 

A volte,  la notte, immagino la Mafalda del futuro, dalla propria cameretta su Marte, che guarda la Luna e, alle sue spalle, la nostra Terra, che sembra esserle tanto vicina. 

Speriamo solo che non dica: «Poverina, pensare che sei solo lo zerbino sulla porta del cesso».

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